L’alimentazione nelle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali: un'introduzione

L’alimentazione nelle Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali

Le Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI) sono malattie “idiopatiche” per le quali ancora non è nota un’unica causa certa.
Si instaura, infatti, un importante squilibrio immunologico a causa di un’alterata interazione tra fattori genetici propri dell'individuo e differenti fattori ambientali, tra i quali assume un ruolo fondamentale proprio l’alimentazione, riconosciuta come uno dei potenziali fattori eziologici per le patologie infiammatorie autoimmuni.

L’intestino rappresenta l’interfaccia principale per l’assorbimento di sostanze nutritive, di vitamine, di acqua, e costituisce, quindi, un ambiente determinante per lo studio di tale associazione.

La flora intestinale, o microbiota, l’insieme dei batteri che vivono nel nostro intestino, sembra essere indispensabile per mantenere l’equilibrio dei processi immunomodulatori ed anti-infiammatori tipici delle malattie autoimmuni. Inoltre, il valore nutrizionale degli alimenti si pensa sia influenzato dallo stesso microbiota intestinale, ma anche la composizione degli alimenti introdotti con la dieta sembra influenzare lo stato metabolico della comunità microbica. In generale, numerosi studi considerano patogenetica la dieta occidentale ad alto contenuto di grassi ed alto contenuto di carboidrati, fattori che, determinando dei cambiamenti significativi nella costituzione e nella struttura del microbiota intestinale (disbiosi), contribuiscono a scatenare e a perpetrare le condizioni che portano alla patologia autoimmune, facendo prevalere i microbi patobionti, responsabili di un’alterata attivazione immunitaria.

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Il Microbiota

L’intestino umano ospita il più grande e diversificato ecosistema di microbi del corpo, costituito da non meno di 1014 cellule batteriche, numero che è dieci volte superiore a quello delle cellule procariotiche dell’organismo adulto. A causa dell’ambiente e dei differenti fattori dell’ospite, le varie popolazioni batteriche presentano variazioni quantitative e qualitative lungo il decorso del tratto gastrointestinale. A tale proposito, infatti, intervengono, il valore del pH, la peristalsi, la disponibilità dei nutrienti, il potenziale di ossidoriduzione all'interno del tessuto, l’età e la salute dell’ospite, l’adesione, la cooperazione e l’antagonismo batterico, le secrezioni di muco contenenti immunoglobuline, il tempo di transito, la presenza di acidi biliari e degli enzimi digestivi. Nello stomaco dei soggetti sani la carica batterica è bassa. Gli organismi isolati predominanti sono i lattobacilli, gli streptococchi ed i lieviti. Nel duodeno e nell’intestino tenue l’ambiente è acido, con un pH compreso tra quattro e cinque. Il numero dei batteri (soprattutto lattobacilli e streptococchi) nel duodeno è superiore a quello dello stomaco: circa 102-104 CFU (unità formanti colonia) contro i 102, rispettivamente. Il microbiota, in funzione della diminuzione della velocità di transito dei contenuti e dell’aumento del pH intraluminale, cambia, inoltre, passando dal duodeno all’ileo, dove la carica batterica raggiunge i 106-108 CFU. Infine, la popolazione del microbiota a livello del colon raggiunge i 1010-1012 CFU, superando, così, in numero le cellule eucariotiche totali di tutto il suo organismo. Nel colon, infatti, ci sono due fattori associati che contribuiscono alla massima colonizzazione fisiologica: un pH neutro ed un più lungo tempo di transito.

Come queste migliaia di miliardi di microbi influenzino lo stato di salute umana e quello di malattia è oggetto di numerose ricerche. Di sicuro, il normale rapporto simbiotico tra organismo umano e microbi è funzione dell'omeostasi tra le due parti, soprattutto a causa della diversità dei germi e della loro stabilità. Di conseguenza, le interruzioni di questo equilibrio sono state associate ad una serie di processi fisiologici e patologici, come nel caso della malattia infiammatoria intestinale. In generale si distinguono organismi residenti o saprofiti, che facilitano e presiedono alla digestione, ed organismi patogeni, che ostacolano i processi metabolici e producono danni ed organismi aerobi che richiedono, al contrario degli anaerobi, la presenza di ossigeno. La funzione principale della flora batterica intestinale è di limitare la crescita dei microrganismi potenzialmente patogeni, mediante secrezione di sostanze antimicrobiche, le batteriocine.
Inoltre, al microbiota spetta l’importante funzione di metabolizzare materiale non digeribile introdotto con l’alimentazione. In particolare, la fermentazione dei carboidrati non digeribili produce SCFA, acidi grassi a catena corta, come acetato, propionato e butirrato, che svolgono un ruolo importante nella modulazione dei diversi processi metabolici nel tratto gastrointestinale.

Il butirrato è particolarmente importante come fonte di energia per l'epitelio del colon; l’acetato ed il propionato sono utilizzati dal fegato come substrati per la lipogenesi e la gluconeogenesi. Inoltre, gli SCFA possono regolare l'espressione genica, sopprimere l'infiammazione e modulare la secrezione di GLP-1, migliorando quella dell’insulina ed esercitando, così, un effetto anti-diabetico. Inoltre, tra le altre funzioni metaboliche del microbiota, si annovera la produzione di vitamine, come la K, la B12, la B5, la biotina, l’acido folico, e la sintesi di aminoacidi dall’ammoniaca o dall’urea. Il microbiota umano svolge, quindi, un ruolo importante nelle attività biochimiche del corpo umano, e regola, come già detto, molti aspetti dell'immunità, assumendo un preciso ed importante ruolo nelle malattie gastrointestinali, ma anche extradigestive. Ripristinare il suo equilibrio fisiologico costituisce, quindi, un obiettivo clinico fondamentale nel trattamento di numerose malattie.

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Disbiosi: cause e diagnosi

In corso di disbiosi intestinale avvengono alterazioni a livello del metabolismo batterico, così come la sovracrescita di microrganismi potenzialmente patogeni, a discapito della popolazione saprofitica. La disbiosi e l'alterazione del pH digestivo, possono modificare i legami intercellulari (tight junctions) responsabili della corretta struttura dello strato epiteliale della mucosa intestinale e ciò porta inevitabilmente ad una aumentata permeabilità mucosale.

Di conseguenza, avviene la penetrazione di antigeni nello spazio intercellulare che porta all’attivazione del tessuto linfoide associato alla mucosa (MALT), con reclutamento ed attivazione della cascata infiammatoria (attivazione dei leucociti e produzione di citochine), ed un conseguente danno ai tessuti. Inoltre, studi recenti hanno dimostrato che alcuni elementi del microbiota siano in grado di attivare le cellule T infiammatorie: le cellule di tipo Th1 e Th17 aumentano e le cellule Treg diminuiscono. Il sistema immunitario risulta, quindi, “squilibrato” verso uno stato infiammatorio cronico. Numerose e differenti possono essere le cause che determinano una condizione di disbiosi a livello del nostro intestino: un abuso di alcool e di carne, nonché una dieta carente di fibre a causa di uno scarso consumo di vegetali (cause alimentari); un abuso di farmaci quali antibiotici, sulfamidici, corticosteroidi, pillola anticoncezionale, l’eccesso di lassativi, (cause jatrogene); un aumentato introito di coloranti ed additivi alimentari, conservanti, pesticidi e di ormoni steroidei alimentari (cause inquinanti); epatopatie, colangiopatie, pancreatiti croniche, gravi infezioni intestinali, fistole, parassitosi, interventi chirurgici, intossicazioni da metalli pesanti (cause patologiche); stress e traumi psichici con effetto prolungato (cause neurogene); immaturità dei meccanismi immunitari, lentezza della peristalsi intestinale, bassi livelli di acidità gastrica (cause pediatriche).

Una corretta diagnosi di disbiosi intestinale prevede un’accurata anamnesi del paziente con la valutazione delle sue abitudini alimentari, del suo ambiente di lavoro, del suo stile di vita, di eventuali farmaci assunti, etc. Sintomi della disbiosi sono rappresentati da flatulenza, diarrea, gengivite e gastrite cronica. Una completa diagnosi prevede, inoltre, l’indagine di particolari dati di laboratorio: alterazioni delle transaminasi e delle alfa-amilasi, la coprocoltura, il pH delle feci (in caso di flora intestinale normale il pH dell'intestino crasso corrisponde ad un valore compreso tra 5.5 e 6.0, dall'infanzia fino all’età adulta; Valori superiori a pH 6.0 sono già sospetti), la prova dell'indolo nelle urine (nelle urine si trovano normalmente piccole quantità di indolo pari a 4-20 mg nelle 24 ore). In caso di disbiosi intestinale grave, nelle urine è presente lo scatolo.

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Fermenti Lattici Probiotici

All’inizio del 1900, il premio Nobel russo Elie Metchnikoff intuì che ceppi di lattobacilli, presenti nello yogurt e nelle bevande a base di latte fermentato, potevano essere in grado di apportare benefici per la salute umana. Egli fu colpito dalla straordinaria longevità della popolazione bulgara, che per tradizione beveva molte bevande a base di latte fermentato.

Metchnikoff fu il primo a suggerire l’ingestione di colture vive di batteri lattici, il cui ruolo naturale era quello di prevenire i fenomeni putrefattivi nell’intestino. Un probiotico, quindi, è un supplemento alimentare vivo di natura microbica che influenza in modo benefico la salute dell’ospite modulando la risposta immunitaria locale e sistemica, così come migliorando l’equilibrio nutrizionale e della microflora intestinale. Secondo la FAO e l’OMS, la giusta definizione di probiotico è “alimento integrato con microrganismi vivi che, grazie al loro meccanismo d’azione, apportano un beneficio alla salute”. Questi microrganismi probiotici hanno la capacità di arrivare vivi sino all’intestino e di aderire agli enterociti, le cellule che costituiscono la mucosa intestinale. A livello di quest’ultima, impediscono la proliferazione dei ceppi batterici patogeni, sottraendo loro il nutrimento, competendo con loro per i possibili siti di adesione alle stesse pareti intestinali e producendo sostanze antibiotiche attive che ne inibiscono la replicazione. I fermenti lattici contenuti nel bioterapico devono essere numerosi (si può ritenere che la quantità sufficiente per ottenere una temporanea colonizzazione sia di almeno 1.000.000.000 di cellule vive per giorno e per persona adulta), per consentire a buona parte di essi di superare la barriera acida dello stomaco e di poter quindi colonizzare l’intero tubo digerente. Devono essere assunti vivi e biochimicamente attivi e per questo la tecnica migliore è la loro liofilizzazione. Non è assolutamente consigliabile l’uso di bio-terapici a base di spore, dal momento che per la caratteristica vita latente, necessitano di un periodo più lungo di attivazione. Il Lactobacillus acidophilus è indubbiamente il più usato per il suo effetto probiotico e terapeutico. Grazie al suo effetto antagonista verso specie microbiche dannose per il nostro organismo, contribuisce all'equilibrio dell'ecosistema intestinale, producendo antibiotici altamente attivi verso gram-positivi e gram-negativi. Escherichia coli Nissle 1917 (EcN), invece, è l’unico probiotico approvato dalle Linee Guida ECCO (European Crhon and Colitis Organisation), per il mantenimento della remissione della Colite Ulcerosa. Si tratta di un ceppo gram-negativo della famiglia degli Escherichia coli, non patogeno, vivo e batteriologicamente forte. Per le sue caratteristiche di aerobio/anaerobio facoltativo è in grado di colonizzare efficacemente anche le porzioni più distali del colon, dove la quantità di ossigeno scarseggia. Studi recenti hanno dimostrato la sua azione anti-infiammatoria a livello del colon distale, nonché il suo potere nell’aumentare l’espressione delle proteine delle tight junction (ZO1, ZO2 e OCCLUDINE), diminuendo la permeabilità e ripristinando l’integrità della barriera intestinale.

Numerose evidenze scientifiche dimostrano, inoltre, l’utilità dei probiotici, ed in particolar modo del VSL#3, nel prevenire attacchi e recidive di pouchite in seguito ad induzione della remissione con antibiotici. Circa il 50% dei pazienti sottoposti ad un intervento di ileo-anoanastomosi, infatti, presenta sviluppo di pouchite (un'infiammazione aspecifica della tasca ileale) nell’arco di 10 anni. Gli studi condotti sulla Malattia di Crohn, infine, sono risultati contraddittori; non esiste alcuna reale evidenza che suggerisca che i probiotici siano benefici per il mantenimento della remissione di tale patologia.

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Trattamento dietetico

Il microbiota rappresenta, quindi, un obiettivo importante per un potenziale intervento dietetico e/o un possibile trattamento. Tuttavia, lo scopo principale del trattamento dietetico per i pazienti affetti da queste patologie risulta essere rappresentato dal raggiungimento di un apporto nutrizionale adeguato ai fabbisogni dello stesso paziente, senza trascurare, comunque, eventuali intolleranze e/o possibili deficit alimentari. La prevalenza della malnutrizione associata alle MICI varia dal 23% all’85% (più frequente nel MDC dell’ileo rispetto alla RCU). Un deficit nutritivo, legato prevalentemente ad un aumento del fabbisogno calorico-proteico, può essere la conseguenza di inadeguata alimentazione (dolori, nausea, inappetenza, restrizione alimentare, farmaci), di malassorbimento (estensione della malattia, chirurgia, deficit sali biliari, overgrowth batterico), di aumentate perdite intestinali (diarrea, sanguinamento, fistole) o dell’uso di alcuni farmaci (come steroidi, Sulfasalazina, immunosoppressori). Per l’elaborazione di un programma terapeutico dietetico bisogna, soprattutto, valutare lo stato di malattia del paziente. La maggior parte dei soggetti in fase di quiescenza non presenta fabbisogni nutrizionali diversi dai soggetti normali: il metabolismo basale a riposo ed il dispendio energetico quotidiano totale è sovrapponibile a quello di soggetti sani, tuttavia, uno stato di malnutrizione può comparire persino quando la malattia è in fase di remissione. Le necessità metaboliche aumentano in presenza di complicanze (febbre, fistole o lesioni alla mucosa): fino al 50% in più del fabbisogno energetico quotidiano (apporto calorico giornaliero pari a 20-30 kcal/kg di peso corporeo; in fase acuta può arrivare a 30-35 Kcal/kg). Anche il fabbisogno proteico risulta aumentato: l’infiammazione porta ad un incremento della produzione di citochine esanoidi, catecolamine e glucocorticoidi i quali danno luogo ad una risposta catabolica producendo un danno proteico ed un bilancio azotato negativo. La dispersione delle proteine seriche varia in funzione della severità e della estensione del processo infiammatorio; nelle forme acute severe sono state calcolate perdite giornaliere di albumina pari al 10% del pool corporeo. Inoltre, l’astensione dai prodotti caseari, a causa di una intolleranza spesso secondaria, riduce notevolmente la quota proteica e di grassi, contribuendo ad un’alimentazione insoddisfacente. Oltre le perdite di proteine si hanno consistenti perdite di Na, Cl, Ca, Mg e ovviamente di ferro emoglobinico . Relativamente alla malattia di Crohn, in età pediatrica è estremamente frequente un ritardo nello sviluppo staturale (15- 46% dei pazienti). Per quanto concerne l’età adulta i deficit nutrizionali del paziente con MDC sono estremamente polimorfi. Deficit nutrizionali si osservano in caso di disfunzione dell’ileo terminale (malato o resecato), che determina un malassorbimento di vit. B12 e sali biliari, con il conseguente deficit di assorbimento di grassi e vitamine A, D, E, K. La perdita dei grassi e vit. D porta al malassorbimento di Ca. Il calcio legato ai grassi nel lume intestinale libera gli ossalati intestinali che si assorbono in maggior quantità e favoriscono la calcolosi renale. In fase acuta di malattia, quindi, sarà necessario ridurre il volume dei pasti, aumentare l’apporto idrico in modo proporzionale alle perdite, garantire il giusto apporto proteico (carne soprattutto bianca, pesce) e di carboidrati (pane, pasta e riso), mantenere l’apporto di fibra solubile ed abolire quella insolubile (crusca, cibi integrali, segale, farro, grano saraceno, piselli, carciofi, cavoli, funghi, fichi, mandorle, noci, arachidi, pere, mele, avocado e prugne). L’attività della lattasi (cioè dell’enzima responsabile della digestione del lattosio in glucosio e galattosio), inoltre, viene ad essere ridotta a causa del processo infiammatorio: ne risulta una maggiore quantità di lattosio che raggiunge i segmenti intestinali più distali: in queste condizioni, vengono prodotti grandi quantità di acido lattico che determina un incremento della motilità intestinale, per cui, sarà opportuno abolire latte e derivati. Risulteranno necessarie eventuali integrazioni di vitamine e sali minerali. Nelle fasi severe di malattia (stenosi organiche, fistole, intestino corto per resezioni multiple, grave enterorragia), invece, è consigliabile tenere a riposo l’intestino e per questo si ricorre alla Nutrizione Parenterale Totale. Quest’ultima rappresenta in età pediatrica un importante approccio terapeutico; può indurre, infatti, alla remissione della sintomatologia acuta, insieme alla Nutrizione Enterale che, quando le condizioni dell’intestino lo permettono, determina anch’essa un azione positiva sulla remissione delle malattie infiammatorie intestinali. Si possono, inoltre, anche somministrare miscele per via orale con particolari caratteristiche nutrizionali: assenza di lattosio, basso residuo fibroso, basso potere osmolare, così da permettere un parziale riposo intestinale. Questo tipo di miscele possono essere somministrate per il tempo necessario alla ripresa della normale alimentazione. In assenza di sintomi, infine, la base dell’alimentazione deve essere quella rappresentata dal modello Mediterraneo: frutta e verdura di stagione, cereali, legumi, patate, pesce, olio extra vergine d’oliva, vino rosso; la quota glucidica rappresenta il 55-60% (solo il 10% per gli zuccheri semplici che, a causa del loro alto potere osmotico, favoriscono la diarrea) delle calorie totali; la quota lipidica si aggira intorno al 25-30% (10% saturi, 10-15% MI, 5-10% PI) delle calorie totali giornaliere e, solo in presenza di steatorrea, vengono somministrati acidi grassi a media catena, (oli MCT); le proteine contribuiscono per il 10-15%.

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Ruolo della Vitamina D

Diverse vitamine e minerali, introdotti con gli alimenti, è stato dimostrato essere coinvolti nella patogenesi delle MICI. In particolar modo, la vitamina D, conosciuta da tempo per il suo importante ruolo a livello del metabolismo osseo, sembra sia attivamente coinvolta nei vari processi infiammatori. Dalla scoperta del suo effetto antirachitico nel 1920, la vitamina D per molti anni è stata vista solo in relazione alla sua funzione sul calcio e sul metabolismo osseo. Numerosi studi negli ultimi anni hanno dimostrato che la vitamina D, nella sua forma ormonale attiva, 1α,25-diidrossivitamina D [1α,25(OH)2D; calcitriolo], non è solo un regolatore del calcio e dell’omeostasi del fosfato, ma ha numerosi effetti extra-scheletrici. Questi includono l’impatto significativo dell’ormone vitamina D sul sistema cardiovascolare, sistema nervoso centrale, sistema endocrino e sistema immunitario, così come sul differenziamento cellulare e sulla crescita cellulare. 1α,25(OH)2D manifesta i suoi diversi effetti biologici legandosi al recettore della vitamina D (VDR) presente nella maggior parte delle cellule del corpo. I recettori della vitamina D sono stati trovati in oltre 35 tessuti che non sono coinvolti nel metabolismo osseo (cellule endoteliali, cellule ematopoietiche, cellule cardiache e del muscolo scheletrico, linfociti T, monociti, neuroni, etc.). Si stima che l’attivazione del VDR possa regolare direttamente e /o indirettamente un grandissimo numero di geni (0.5- 5 % del totale del genoma umano). Il fatto che il recettore della vitamina D (VDR) sia espresso in molti tessuti implica il notevole effetto pleiotropico dell’ormone vitamina D. Recenti studi fanno ipotizzare che la carenza di vitamina D [sierici di 25 (OH)D < 20 ng/ml] sia un importante fattore eziologico nella patogenesi di molte malattie croniche. Queste includono malattie autoimmuni (sclerosi multipla, diabete di tipo 1), malattie infiammatorie dell’intestino (malattia di Crohn e Colite Ulcerosa), infezioni, immunodeficienza, malattie cardiovascolari (ipertensione, insufficienza cardiaca,), cancro (cancro del colon, cancro del seno, linfoma non-Hodgkin) e disturbi neurocognitivi (morbo di Alzheimer). Relativamente al suo ruolo attivo nella fisiopatologia delle malattie autoimmuni, vari risultati sperimentali hanno mostrato la capacità della vitamina D di regolare la produzione di chemiochine, contrastando l’infiammazione autoimmune per indurre la differenziazione delle cellule immunitarie in modo da promuovere la auto-tolleranza. Una review nel 2013 ha descritto una serie di dati convergenti che suggeriscono che l’attivazione locale della vitamina D possa regolare sia l’immunità naturale che quella umorale, e anche quella intestinale, in modo tale da promuoverne l’integrità della barriera, facilitare l’eliminazione della flora trasportata, e impedire lo sviluppo delle cellule T CD4 verso il fenotipo infiammatorio. In un piccolo studio in doppio cieco, controllato con placebo, randomizzato, sono stati valutati i benefici del trattamento orale con vitamina D3 su 108 pazienti affetti dalla malattia di Crohn in remissione. La supplementazione di vitamina D3 (1200 UI/die) ha aumentato significativamente il livello nel siero di 25(OH)D3 da un valore medio di 69 nmol/l a 96 nmol/l dopo 3 mesi. Il tasso di recidiva era più basso tra i pazienti trattati con vitamina D3 rispetto ai pazienti trattati con placebo. In uno studio pilota pubblicato recentemente, l’influenza della supplementazione di vitamina D3 sull’indice di attività della malattia di Crohn (CDAI) è stato testato in pazienti con lieve-moderata malattia di Crohn. La supplementazione di vitamina D ha aumentato significativamente i livelli sierici di 25 (OH) D3 da 16 ± 10 ng/ml a 45 ± 19 ng/ml ed ha ridotto i punteggi medi CDAI di 112 ± 81 da 230 ± 74 – 118 ± 66. Sono migliorati anche i valori della qualità della vita, a seguito della somministrazione di vitamina D. In uno studio del 2015, pubblicato sul United European Gastroenterology Journal, gli autori hanno cercato di determinare le variazioni nella funzione della barriera intestinale, in pazienti affetti da malattia di Crohn, in risposta all’integrazione di vitamina D. Alla fine dello studio, i risultati hanno dimostrato come il gruppo dei pazienti trattati abbia più mantenuto la propria permeabilità intestinale rispetto al gruppo del placebo, che ha riscontrato peggioramenti. L’aumento della permeabilità intestinale è considerato un fattore di rischio che può essere associato alla ricaduta clinica nei casi di malattia di Crohn. Inoltre, nei pazienti con i più alti livelli ematici di vitamina D sono stati riscontrati segni di infiammazione ridotta (misurata con la proteina C-reattiva ed i peptidi anti-microbici) e questi pazienti hanno anche riferito una migliore qualità della vita.

I risultati di questi studi giustificano la raccomandazione di migliorare lo stato generale della vitamina D nei bambini e negli adulti tramite un opportuno approccio alla esposizione alla luce solare, un adeguato consumo di alimenti contenenti vitamina D ed un eventuale supplementazione con la stessa vitamina.

In generale, nonostante l’assenza di definitive ed univoche evidenze scientifiche comporti la necessità di effettuare ulteriori studi, per confermare l’ipotesi di associazione di tale vitamina con le differenti malattie croniche sopracitate, tuttavia, una maggiore attenzione dovrebbe essere attribuita alla carenza di vitamina D nella pratica medica e farmaceutica.

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